venerdì 10 agosto 2012

Scrive sei libri l'anno

Martin Widmark
Nei suoi libri, Widmark evita questioni complicate, quali la violenza, il sesso o l’alcol. - Il messaggio che voglio trasmettere è che la vita è fantastica, dice.

Dagli inizi del 2000, Martin Widmark ha pubblicato un gran numero di libri per bambini e ragazzi. In svedese, ci sono diversi personaggi, ma a livello internazionale, "Nelly Rapp" e "Lassie e Maja" sono quelli più famosi.
- Scrivo tra i sei e gli otto libri all'anno, dice.
Quando si scrivono libri come quelli di Lasse e Maja, è necessario usare un linguaggio libero dalle parole complesse, assicurandosi che sia adatto ai lettori alle prime armi con la lettura.
Con orgoglio Martin Widmark afferma che è attraverso i suoi libri che molti bambini imparano a leggere, oggi.

- Imparare a leggere è un evento che cambia la vita! La lettura è stata una forza positiva nel corso della mia vita.

Se nei polizieschi Lasse e Maja, il linguaggio è semplice, tuttavia i casi da risolvere sono complicati
- Come scrittore, uno non dovrebbe mai cadere nell’errore di pensare che la mente e i pensieri dei bambini sono semplici come il loro linguaggio, dice Martin Widmark.
Nei suoi libri, fa divertire molto come descrive il mondo degli adulti e molti dei personaggi sono caricature. Lasse e Maja sono spesso gli unici personaggi che riescono a vedere e pensare in modo chiaro il caso da risolvere.
Martin Widmark dice che ha deliberatamente evitato di dare ai protagonisti tutti elementi caratteristici.
- Tutti i bambini dovrebbero essere in grado di identificarsi con loro, fa notare.
- Penso sempre al lettore, quando scrivo. Il bambino è costantemente presente. E' come una conversazione. Penso: sarà in grado di comprendere questo? Cerco il lettore e provo a creare una connessione, dice Martin.

Martin Widmark non è molto interessato a scrivere lezioni di moralità o questioni esistenziali in attesa di essere risolti.
- Evito questioni troppo complesse. Come scrittore, non devo discutere di tutto con i miei lettori, quindi non scrivo di sesso, violenza o alcol, dice.
Martin Widmark vuole semplicemente che i suoi libri siano un rifugio dalle cose che appartengono al mondo degli adulti, cose che i bambini non sono pronti ad affrontare.
- Permettere ai bambini di essere bambini!
Al tempo stesso, vuole comunicare qualcosa d’importante:
- L’unico messaggio che affido ai miei lettori, è quello della tolleranza. Permettere a tutti di essere se stessi. Non importa se sei piccolo e timido, o schietto e forte, l’importante è che sia permesso di essere se stessi.
- Voglio dire che la vita è bella, che per cambiare le cose è possibile e che niente è pericoloso!

di Hanna Modigh Glansholm per Rivista Letteraria di libri e autori svedesi

(Traduzione dall'inglese a cura di Milena Galeoto)

giovedì 9 agosto 2012

Bilingui e contenti


     
 
 
Catherine de Lange, New Scientist, Gran Bretagna.


Crescere parlando due lingue può influenzare tutto: dalla capacità di risolvere i problemi al carattere. Come se in noi ci fossero due persone diverse

Appena sono nata, mia madre mi ha guardato dal letto dell’ospedale e, senza volerlo, ha influen­zato in modo permanen­te lo sviluppo del mio cervello, migliorando le mie capacità di apprendimento, di gestire più cose contempo­raneamente e di risolvere i problemi. Un domani la mia mente sarà anche meno esposta ai danni dell’età. Che cosa ha fatto? Mi ha parlato in francese. All’epoca mia madre non sapeva di darmi un vantaggio cognitivo. Era francese, e mio padre era inglese, perciò sembrava del tutto logico che io e i miei fratelli imparassimo entrambe le lingue fin da bambini. Nel frattempo, però, studi su studi hanno confermato che il bilinguismo potrebbe avere influenzato profondamente il mio modo di pensare. L’arricchimento cognitivo è solo il primo passo. Molte ricerche dicono che i miei ricordi, i miei valori, perfino la mia personalità cambiano a seconda della lingua che parlo. È come se nel cervello bilingue coabitassero due menti separate, a conferma del ruolo fondamentale del linguaggio nel pensiero umano. “Il bilinguismo è uno straordinario microscopio all’interno del cervello”, osserva la neuroscienziata Laura Ann Petitto della Gallaudet university di Washington Dc. Non sempre però il bilinguismo è stato così apprezzato. Per molti genitori come i miei non è stato facile decidere di educare i figli a parlare due lingue. Almeno fin dal diciannovesimo secolo gli insegnanti pensavano che il bilinguismo confondesse il bambino impedendogli di imparare bene sia l’una che l’altra lingua. Nella migliore delle ipotesi i bambini bilingui erano visti come i proverbiali “esperti di tutto, maestri in niente”. Nella peggiore c’era il sospetto che il bilinguismo potesse compromettere altri aspetti dello sviluppo, abbassando il quoziente intellettivo.

Oggi questi timori sembrano ingiustificati. È vero, i bilingui tendono ad avere un vocabolario leggermente più limitato rispetto ai monolingui, e a volte ci mettono di più a trovare la parola giusta quando devono dare un nome alle cose. Ma uno studio fondamentale realizzato negli anni sessanta da Elizabeth Peal e Wallace Lambert della McGill university di Montréal ha dimostrato che parlare due lingue non ritarda affatto lo sviluppo generale. Anzi, al netto di altri fattori che possono influire sui risultati (come la condizione socioeconomica e l’istruzione) i bilingui facevano registrare risultati migliori dei monolingui in 15 test verbali e non verbali.

Ma queste scoperte sono state largamente ignorate. Lo studio di Peal e Lambert ha alimentato un piccolo filone di ricerca sui vantaggi del bilinguismo, ma quasi tutti i ricercatori e gli insegnanti sono rimasti aggrappati alle vecchie convinzioni. Solo negli ultimi anni il bilinguismo ha ricevuto le attenzioni che merita. “Per trent’anni me ne sono stata al buio nel mio studiolo a fare le mie ricerche e poi, tutto a un tratto, negli ultimi cinque anni si sono spalancate le porte”, dice Ellen Bialystok, psicologa della York university di Toronto. Questo rinnovato interesse è dovuto in parte agli ultimi sviluppi tecnologici in campo neuroscientifico, come la spettroscopia funzionale nel vicino infrarosso (fNIRS), una tecnica di indagine cerebrale non invasiva che con una specie di monitor muto e portatile scruta nel cervello dei bambini mentre sono seduti in grembo ai genitori. Oggi finalmente i ricercatori sono in grado di osservare il cervello dei bambini molto piccoli durante le prime fasi di incontro con il linguaggio.

Grazie a questa tecnica il gruppo di lavoro di Laura Ann Petitto è riuscito a evidenziare le differenze tra i bambini che crescono parlando una sola lingua e quelli che ne imparano da subito due. Secondo una teoria popolare, i bambini nascono “cittadini del mondo” e sono in grado di distinguere i suoni di qualsiasi lingua. Quando compiono un anno, tuttavia, sembrano perdere questa capacità, orientandosi esclusivamente verso i suoni della loro lingua madre.
Questo sembrerebbe riguardare soprattutto i monolingui. Gli studi di Petitto mostrano che invece tra i bambini bilingui alla fine del primo anno si continua a registrare un aumento dell’attività neurale in risposta a fonemi completamente sconosciuti. L’esperienza del bilinguismo, sostiene Petitto, “tiene aperta” la finestra dell’apprendimento delle lingue. Soprattutto, i bambini bilingui raggiungono gli stessi “traguardi” linguistici (per esempio la prima parola) alla stessa età dei bambini monolingui, a riprova del fatto che il bilinguismo stimola e non frena lo sviluppo. Si tratta di un aspetto che, a quanto pare, aiuta le persone come me a imparare altre lingue più avanti negli anni. “È come se il cervello monolingue fosse a dieta, mentre quello bilingue ci fa vedere il tessuto linguistico in tutta la sua pienezza e abbondanza”, spiega Petitto.

Anzi, a mano a mano che gli studiosi approfondiscono le ricerche si scoprono sempre nuovi vantaggi, che si estendono a un ampio spettro di capacità cognitive. Bialystok si è accorta di uno di questi vantaggi quando ha chiesto a un gruppo di bambini di verificare la correttezza grammaticale di alcune frasi. Sia i monolingui i bilingui si sono accorti dell’errore nella frase apples growed on trees (le mele crescevano sugli alberi, ma il passato del verbo to grow è grew). Quando però si sono trovati davanti a frasi senza senso come apples grow on noses (le mele crescono sui nasi) sono emerse le differenze: i monolingui, disorientati dalla stupidità della frase, hanno sbagliato e segnalato un errore, mentre i bilingui hanno risposto correttamente.

Secondo Bialystok, più che riflettere le competenze grammaticali i risultati sono la spia di un maggiore sviluppo di quello che viene chiamato il “sistema esecutivo” del cervello, un insieme di abilità mentali che ruota attorno alla capacità di filtrare le informazioni non rilevanti e di concentrarsi sull’obiettivo immediato. In questo caso, i bambini bilingui sono stati più capaci di concentrarsi sulla grammatica ignorando il significato delle parole. L’ipotesi ha trovato conferma in una serie di test mirati a verificare direttamente questo aspetto. Un’altra abilità esecutiva consiste nella capacità di passare da un compito a un altro senza confondersi, e anche in tal caso i bambini bilingui sono più pronti. Quando devono catalogare degli oggetti, per esempio, riescono a saltare dalle forme ai colori senza commettere errori.

Queste abilità sono cruciali per tutte le nostre attività, dalla lettura ai calcoli matematici fino alla guida. Chi riesce a migliorarli, quindi, acquista una maggiore flessibilità mentale. Ecco perché le persone bilingui avevano superato brillantemente il test di Peal e Lambert, spiega Bialystok. Sembra addirittura che le virtù del bilinguismo si estendano alle nostre capacità di relazione. Paula Rubio-Fernández e Sam Glucksberg, psicologi della Princeton university, hanno scoperto che i bilingui sono più bravi a calarsi nei panni degli altri e a capire le loro ragioni, perché riescono più facilmente a mettere da parte ciò che già sanno e a concentrarsi sul punto di vista altrui.

Ginnastica mentale

Perché parlare due lingue rende il cervello così flessibile e concentrato? Una risposta arriva dal gruppo di lavoro di Viorica Marian della Northwestern university di Evanston, Illinois, che ha usato degli strumenti di tracciamento oculare per seguire lo sguardo di un gruppo di volontari impegnati in varie attività. Nel corso di un esperimento, Marian ha messo una serie di oggetti davanti a un gruppo di bilingui anglorussi dando a ciascuno di loro alcune istruzioni, per esempio “prendi il pennarello”. Il trucco è che nelle due lingue i nomi di alcuni oggetti hanno lo stesso suono ma significati diversi. In russo il termine per dire “francobollo” ha lo stesso suono di marker, cioè “pennarello” in inglese. Anche se i volontari non hanno mai frainteso le domande, il tracciamento oculare ha evidenziato che l’occhio si posa fugacemente sull’oggetto alternativo prima di scegliere quello giusto. Questo gesto quasi impercettibile rivela un particolare importante sul funzionamento del cervello bilingue: le due lingue si contendono continuamente l’attenzione nel nostro inconscio. Ogni volta che un bilingue parla, scrive o ascolta la radio, il suo cervello si sforza di scegliere la parola giusta inibendo il termine equivalente nell’altra lingua. Si tratta di una notevole dimostrazione di controllo esecutivo: non a caso è lo stesso esercizio cognitivo che viene usato in molti corsi di brain-training commerciali, in cui spesso si insegna a ignorare le informazioni irrilevanti mentre si affronta un problema.

La scienza non ci ha messo molto a chiedersi se questa ginnastica mentale possa aiutare il cervello a resistere ai colpi dell’invecchiamento. In fondo, è ampiamente dimostrato che altre forme di esercizi per il cervello creano una “riserva cognitiva”, una specie di cuscinetto mentale che protegge la mente dal declino senile. Per scoprirlo, il gruppo di lavoro di Bialystok ha raccolto i dati di 184 pazienti affetti da demenza, metà dei quali erano bilingui. I risultati, pubblicati nel 2007, sono sorprendenti: nei soggetti bilingui i sintomi compaiono con quattro anni di ritardo rispetto ai monolingui. A distanza di tre anni l’esperimento è stato ripetuto su altre 200 persone affette da un principio di Alzheimer. Ancora una volta è stata riscontrata una discrepanza di cinque anni nella comparsa dei sintomi nei pazienti bilingui. I risultati si confermano anche tenendo conto di fattori come la professione o l’istruzione. “Sono stata la prima a sorprendermi degli effetti”, confessa Bialystok.

Due canali mentali

Oltre a dare ai bilingui un vantaggio mentale, parlare una seconda lingua può influenzare profondamente il comportamento. I neuroscienziati e gli psicologi stanno cominciando ad accettare che il linguaggio è legato a doppio filo con il pensiero e il ragionamento, e qualcuno si domanda se le persone bilingui si comportino in modo diverso a seconda della lingua che parlano. Per la mia esperienza personale direi senz’altro di sì: spesso mi dicono che quando parlo inglese sembro diversa rispetto a quando parlo francese. Questi aspetti, ovviamente, sono difficili da distinguere, perché non è facile separare le proprie diverse anime. Negli anni sessanta, Susan Ervin-Tripp, oggi all’università della California a Berkeley, trovò un sistema oggettivo per studiare il problema quando domandò a un gruppo di bilingui anglonipponici di completare una serie di frasi incompiute in due diverse sessioni, prima in una lingua, poi nell’altra. Scoprì che i volontari concludevano sistematicamente le frasi in modo diverso a seconda della lingua. Per esempio, data la frase “I veri amici dovrebbero…”, chi rispondeva in giapponese scriveva “…aiutarsi a vicenda”; poi però in inglese sceglieva “…essere molto franchi”. In generale, le risposte sembravano riflettere quelle date dai monolingui nell’una e nell’altra lingua. I risultati portarono Ervin-Tripp alla conclusione che i bilingui usano due canali mentali, uno per ciascuna lingua, come se avessero due teste diverse.

Questa teoria sembra trovare conferma in una serie di studi più recenti. Il gruppo di lavoro di David Luna al Baruch college di New York ha chiesto recentemente a un gruppo di volontari angloispanici di guardare degli spot televisivi incentrati sulle donne (prima in una lingua e poi, sei mesi dopo, nell’altra) e di dare un giudizio sulla loro personalità. Quando gli spot erano in spagnolo i volontari tendevano a descrivere le donne come indipendenti ed estroverse; quando invece erano in inglese le stesse donne venivano descritte come stupide e dipendenti. In un altro studio si vede come i bilingui greco-inglesi tendano a reagire in modo diversissimo alla stessa vicenda a seconda della lingua in cui viene raccontata: in un caso si definiscono “indifferenti” a un personaggio, nell’altro invece si dicono “preoccupati” per quello che potrà succedergli.

Una spiegazione è che ciascuna lingua porta alla mente i valori culturali che abbiamo assimilato mentre la imparavamo, sostiene Nairàn Ramirez-Esparza, psicologa della Università di Washington a Seattle. Recentemente la studiosa ha chiesto a un gruppo di messicani bilingui di descrivere la loro personalità in due diversi questionari, uno in inglese e l’altro in spagnolo. La modestia è più apprezzata in Messico che negli Stati Uniti, dove la qualità considerata migliore è l’assertività, e prevedibilmente la lingua in cui è formulato il questionario evidenzia queste differenze. Quando rispondevano in spagnolo i volontari si descrivevano come più umili rispetto a quando il questionario era scritto in inglese. Alcuni di questi “salti” comportamentali potrebbero essere intimamente legati al ruolo del linguaggio come impalcatura che sostiene e struttura i nostri ricordi.
Molti studi dimostrano che è più facile ricordare un oggetto quando se ne conosce il nome, il che spiega forse perché i ricordi della prima infanzia sono così sporadici. Sembra addirittura che la grammatica di una lingua sia in grado di influenzare la memoria. Lera Boroditsky dell’università di Stanford, in California, ha scoperto che i madrelingua spagnoli hanno più difficoltà a ricordare chi ha provocato un incidente rispetto ai madrelingua inglesi, forse perché tendono a usare frasi impersonali come Se rompió el florero (si è rotto il vaso) che non specificano l’agente dell’evento.

I risultati sembrano indicare che i ricordi delle persone bilingui cambiano a seconda della lingua. In un esperimento semplice ma intelligente, Marian e Margarita Kaushanskaya, all’epoca alla Northwestern university, hanno rivolto una serie di domande di cultura generale a un gruppo di bilingui anglocinesi, prima in una lingua e poi nell’altra. Per esempio, hanno chiesto di nominare “una statua di una persona con il braccio alzato che guarda lontano”. Ebbene, quando la domanda era formulata in inglese i volontari tendevano a rispondere la statua della Libertà; quando invece era in mandarino rispondevano la statua di Mao. Lo stesso succede quando i bilingui richiamano alla memoria ricordi personali e autobiografici.

Nonostante gli ultimi progressi, è probabile che i ricercatori abbiano scoperto solo la punta dell’iceberg sugli impatti del bilinguismo, e ci sono ancora molte domande senza risposta. La principale è se i monolingui possono avere gli stessi vantaggi. In tal caso, quale miglior incentivo a promuovere l’insegnamento delle lingue nelle scuole, che sta diminuendo sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti?

Molto si è detto sulle difficoltà di imparare un’altra lingua quando si è in là con gli anni, ma per ora è dimostrato che gli sforzi pagano. “Si può imparare un’altra lingua a qualsiasi età, con vantaggi evidenti per il sistema cognitivo”, dice Marian. Bialystok conferma che chi impara una lingua in tarda età ottiene dei benefici, anche se meno pronunciati rispetto ai bilingui. “Imparate un’altra lingua a qualsiasi età”, dice. “È questa la fonte della riserva cognitiva”. Per come stanno le cose, sono contenta di essermi lasciata alle spalle questa sfida. Mia madre non poteva immaginare fino a che punto le sue parole avrebbero influenzato il mio cervello e la mia visione del mondo, ma sono sicura che ne è valsa la pena. E per questo non mi resta che dirle merci!

Pubblicato su Internazionale n°957 13-19 luglio 2012

giovedì 2 agosto 2012

La realtà è una favola

Gunilla Bergström     Foto: Hans A. Vedlog


LA REALTA’ E’ UNA FAVOLA. Ogni giorno è nuovo. I bambini capiscono perfettamente ciò che noi adulti abbiamo dimenticato, preoccupati come siamo a pagare l'affitto, a portare cibo a casa e fare il nostro dovere: dimenticando che la vita è un enigma incomparabile! Pieno di possibilità. Cose che non abbiamo mai pensato che fossimo in grado di fare!
I bambini che hanno compreso la magia della realtà sono più ampiamente dotati e se un giorno questi bambini saranno al potere o saranno semplicemente genitori, potremmo contare su un mondo migliore”.